COVID-19. Tre anni dopo.

Alla vigilia di questo promettente 2022 io sono sulla soglia di un crollo emotivo. Continuo a sperare che le cose cambino, migliorino, e non riesco a fare i conti ancora con tutto quello che (non) è successo da quel Febbraio 2020.

La sera in cui hanno annunciato il lockdown avevamo degli amici a cena. Dovevamo ancora inauguarare la casa nuova appena completata e arredata. In questo ho avuto molta fortuna a finire tutti i lavori prima di questa follia. Mi è sembrato subito di vivere in un film di fantascienza, era tutto surreale. I primi tempi abbiamo cercato di stare vicini, di sentire gli amici per fare gli aperitivi virtuali del venerdi su skype. Non poter avere la libertà di prenderer la macchina e andare in un altra regione a trovare la mia famiglia mi è sembrato insostenibile, Più che altro non sapere fino a quando. Sono stata depressa. Sono stata annoiata. Ho preso un pezzo di Lievito madre dalla mia collega in ufficio (ah si perche in tutto questo la mia azienda mi ha continuato a fare lavorare in presenza come niente fosse) e l’ho chiamato Bartolomeo. Per tutto il primo lockdown ho panificato, lievitato, impastato, informato e cucinato come una pazza e ho preso 5 chili.

Mi sentivo privilegiata ad auscire di casa per andare a lvoro tutti i giorni, ma anche vittima di una scelta ingiusta e non corretta visto che tutti i manager sono srimasti a casa mentre i poveri impiegati andavano a lavoro.

La prima estate l’abbiamo passata in Italia, avevamo una villa prenotata in Sardegna con gli amici a giugno ma visto le tante incertezze abbiamo cancellato tutto e quella è stata l’inizio della fine. La fine della spontaneità, la fine dei rapporti umani come me li ricordavo. la fine di alcune frequentazioni.

Il Covid mi ha subito insegnato che le persone reagivano in modo molto diverso agli eventi. Anche che avresti scommesso l’avrebbe pensata co ragionata come te, ha avuto le reazioni più distanti. Questo ha creato distanza e incomprensione. Abbiamo fatto un bellissimo tour Toscana-Umbra-Marche cercando di vivere l’estate il più normalmente possibile.

Poi è arrivato l’autunno e la seconda ondata. Questa volta tolamente irrazionalmente la mia azienda ha deciso di punto in bianco di segregare alcuni ruoli a casa per sei mesi ininterrotti, senza rotazione. Così sono rimasta chiusa nella mia camerett-ufficio da fine Ottobre a fine Maggio 2021, quando poi senza di nuovo un criterio logico e nessuno di noi vaccinato, ci hanno richiamato tutti in presenza in un ufficio da 9 persone. Nei mesi a casa cercavo di fare un po di movimento, mi allenavo la sera con i video online, ma ero comunque depressa. Ho smesso di vedere gli amici e anche praticamente di sentirli. Mi sembrava di non avere mai niente da dire, se non condividere lamentele. E visto che tutti stavano passando a modo loro un periodo di merda, non avevo voglia di parlare nè assillare gli altri, mi sembrava di fare a gara a chi la viveva peggio e cosi stavo in silenzio. Ho iniziato a usare app di giochi sul telefono e vivere una vita parallela virtuale, con persone che non avrei mai conosciuto ma erano un po’ come una famiglia.

Con l’anno nuovo siamo anche andati dalla nutrizionista, ci siamo messi a dieta e abbiamo perso i chili del primo lockdown. Rientrare in ufficio è stato uno shock, soprattutto perche lavorativamente parlando la situazione è andata sempre piu degenerando; tra il Covid e la crisi modniale delle materia prime lo stress e i ritardi sono ormai all’ordine del giorno. A un certo punto ho sviluppato anche una forma di insensibilità, che per una che fa customer service e dovrebbe avere come superpotere l’empatia non è è proprio il massimo. Sono asettica come le sale ospedaliere. Ripeto all’inifinito che siamo in ritardo con le consegne e non possiamo fare di meglio. Del resto con una crisi del genere è solo negli ultimi mesi che si vede nel mercato del lavoro una lieve ripartenza…

La seconda estate l’abbiamo passata in Sicilia e tornare alle mie radici è stato rigenerante. Solo che è stato strano. Non la solita estate di pranzi e feste ed eventi. Una estate modesta, riservata, tiepida.

Ed ecco di nuovo l’autunno, aumentano i casi ma noi restiamo in ufficio, ormai siamo vaccinati e di nuovo sembra che l’azeinda non creda che se stai a casa lavori davvero. Siamo stati venduti e abbiamo cambiato proprietà, nome e management, ma per ora ancora poca freschezza di pensiero organizzativo…

E’ arrivato dicembre, sono di nuovo a dieta, sto facendo sport in una nuova palestra vicino casa. Quest’anno ho potuto passare le feste con i miei, come ai vecchi tempi – salvo tamponi dell’ultimo minuto per confermare o ribalatare i piani del cenone se le nipoti fossero risultate positive. Improvvisamente tutti intorno a me sono positivi o sono a contatto con un positivo, e io per fortuna fino adesso l’ho sempre scampata…

Emotivamente sono a pezzi. Sono stanca mentalmente a livelli astronomici. Non ho voglia di festeggiare il capodanno, voglio solo stare sotto al piumone e dimenticare il mondo. E così entriamo nel terzo anno di questa pandemia. Mi da fastidio tutto. E’ tutto faticoso. Non sopporto nessuno. Voglio piangere, Voglio urlare. Voglio vivere… ma non so ancora come si fa di questi tempi, perchè non passerà presto e comunque non sarà mai più come prima.

Buon 2022 a tutti quelli che hanno scoperto di essre deboli e fragili, più di quanto immaginavano. A tutti quelli come me che ogni giorno comprendono di non avere gli strumenti per affrontare quello che sta succedendo, eppure ci provano…

2022, come sarai?

Mio padre

Mi sono candidata alle elezioni comunali. Era nata per gioco, me lo ha chiesto un amico di dargli una mano con la lista e la campagna. Solo che non riesco a fare nulla di cosi importante senza attribuirgli un senso profondo. Impegnarsi per la propria città e una cosa seria, sventolare una bandiera o sottoscrivere certe idee non si fa senza riflettere. O almeno non penso si dovrebbe fare. Siamo nella coalizione di sinistra che sostiene il sindaco uscente. Siamo nati da una lista civica, ci siamo fusi e reinventati. Siamo dentro a +Europa. Non a caso. Alle ultime elezioni già scrissi quello che pensavo della Bonino e dei suoi. E poi se non ci credo io nell’Europa che ho studiato proprio questo… allora ho pensato a mio padre. Cosa diresti papà di questa mia scelta? Saresti fiero del mio impegno politico? E tu se fossi vivo oggi per chi voteresti?

Mio padre, nato nella profonda periferia siciliana nel 1952, un ragazzo ribelle ma studioso, promettente, andò a studiare filosofia a Padova. Negli anni 70 non era una cosa da nulla. Diventò professore, sindacalista, segretario regionale della CGIL scuola, intellettuale. Scrisse molto e pubblicò poesie e saggi. Mio padre ci teneva particolarmente ai temi della pace e della giustizia. Era l’89 quando lui aveva due figlie di 11 e 6 anni e il panorama politico internazionale era diversissimo da oggi, la Germania divisa, le tensioni della guerra fredda, la corsa al nucleare. Era l’89 quando lui a 37 anni moriva. Se me andava dopo aver scritto molto sul tema dell’educazione alla pace a scuola. Quando la scuola aveva chi credeva in lei. Quando la scuola insegnava valori.

Mio padre era seriamente preoccupato di una imminente guerra nucleare, come molto suoi contemporanei, del resto. Io credo che oggi in qualche modo noi occidentali che viviamo nel lusso e negli agi della società moderna siamo troppo lontani dalla guerra, l’abbiamo dimenticata, e prendiamo tutto poco seriamente. Le guerre non sono finite ma non ci riguardano. Ed é per questo che non c’è piu una coscienza sociale come quella di quegli anni. Ditemi oggi chi si sta preoccupando di insegnare la pace nelle scuole? Si parla di bullismo, revangeporn, violenza sulle donne, dipendenze da smartphone… non fraintendetemi, sono temi importantissimi, ma la pace non è comunque madre di tutte le buone pratiche che combattono anche questi problemi? Abbiamo perso di vista i valori più grandi per affrontare le battaglie del quotidiano. Problemi di lusso. Certo la pace é un valore immenso, così grande che fa paura anche pensare a come si fa ad affrontarlo nel modo giusto… i grandi valori spaventano, non ci sentiamo in grado di affrontarli o non pensiamo di essere preparati abbastanza. Così facendo però li ignoriamo e non ce ne occupiamo più. Per questo rispetto agli ideali che aveva mio padre mi sento io stessa piccola e inadeguata. Penso però che apprezzerebbe l’impegno, la volontà di contribuire, fare qualcosa, mettersi in gioco, esporsi. Forse, deluso anche lui dalla sinistra di oggi, si schiererebbe anche lui con i liberali e gli europeisti. Forse nonostante le accese discussioni che potremmo avere, alla fine sarebbe orgoglioso.

Se Dio non esiste

L’altro giorno pensavo “e se davvero non ci fosse nulla dopo la vita terrena, se tornassimo polvere, se la nostra coscienza di punto in bianco si spegnesse per sempre”… questo pensiero mi terrorizza ma mi affascina. Quando sto un po’ nella mia testa, dentro i miei pensieri, mi dico che quello che siamo come esseri umani mi pare cosi straordinario che non possa svanire. Come fa il tuo conscio a svanire nel nulla quando si muore, on/off come un apparecchio qualsiasi? Mi sembrerebbe uno spreco averci dato cosi tanto in dono per poi non farne rimanere nulla. Allora mi viene da credere in qualche Dio, in qualche forza, in qualche energia superiore che ci governa. Ma come tutti quelli a cui piace ragionare per amor del semplice raziocinio, mi piace anche sprofondare nell’ipotesi in cui davvero chiudendo gli occhi un giorno non sapremo neanche piu di essere esistiti. Buio. Silenzio. Vuoto cosmico. La voce che mi parla incessantemente nel cervello muta per sempre. Se non ce ne rendiamo conto, di non esistere piu, allora non può essere neanche tanto brutto o doloroso. Per noi almeno no. Allora cosa rimane di noi? Rimane solo quello che gli altri ricordano. Esistiamo o siamo esistiti solo se qualcuno ne avrà memoria. Cosa resta del nostro faticare, soffrire, gioire, amare, affannarsi, sudare, perdonare… mi pare che tutto perda importanza in questa ipotesi finale. Che l’unica cosa che possa avere senso sia condurre una vita modesta, in punta di piedi, senza danneggiare gli altri, arrecando il minor male possibile fisico e spirituale al prossimo e alla terra che abitiamo, cercando di regalare qualche gioia, fare un po’ di bene, apprezzando quello che si vive attimo per attimo… questo mi pare l’unica cosa che abbia senso – se Dio non esiste. E se mi sbaglio e invece esiste, allora forse potevo fare di più, con più forza, ma forse mi perdonerebbe perché in questo buio della ragione, in questa incertezza terrena, avrei fatto quello che potevo, per lo meno senza cattiveria, senza odio, lasciando un’ impronta piccola, ma onesta.

AAA cercasi

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La prima caratteristica fondamentale è che non sia come me: cioè che non gli scocci sbucciare le arance.
Io adoro le arance, il mio amore per loro è inversamente proporzionale alla voglia che ho di sbucciarle, provo un immenso fastidio per quella sensazione di secchezza appiccicosetta che ti rimane sulle dita, per non parlare del fatto che ti fanno venire le unghie gialle, anche se profumate da qui all’eternità. Insomma non ce la posso fare da sola, ho sbucciato arance a me stessa per una vita e adesso mi merito qualcuno che mi ami a tal punto da farlo per me, o ami sbucciare le arance di per sè. Una delle due va bene. Le sere di inverno, davanti alla TV che adesso non ho, ma che quando staremo insieme io farò il compromesso di accettare come oggetto digitale nella mia vita. Sempre per amore, chiaramente, si fanno cose assurde. Guardando un film: lui sbuccia, io mangio.

Vorrei un compagno che impazzisca per la mia stessa musica, che mi mandi una canzone al giorno almeno finché ci stiamo ancora innamorando, e se avesse gusti musicali del tutto diversi dai miei, vorrei un compagno che abbracciasse cose nuove, le mie cose, i miei interessi, che venisse con me ai concerti, mi comprasse una birra e mi limonasse duro sulle canzoni romantiche.

Vorrei un ragazzo che comprenda la mia forte dipendenza da burrocacao senza giudicarmi, che tolleri la presenza di questi stick ovunque in auto e sparsi per la casa, che sappia qual’è la mia marca preferita, che sappia anche qual’è il mio gusto preferito (il cocco – ndr.) e che se gli capita ogni tanto mi compri dei burrocacao perché mi pensa sempre e si ricorda di me.

Un ragazzo che ci sia, che sia presente nei gesti e nei modi, che mi chieda se ho mangiato, che sia affettuoso, che mi prenda per mano quando camminiamo, che canti le canzoni a squarciagola in macchina insieme a me, che mi abbracci di sorpresa alle spalle, che mi baci agli angoli delle strade.

Che quando apriamo un pacchetto di Mentos mangi tutte le caramelle che mancano finché non si trova la fragola, che è quella che voglio io.

Che mi spronasse a essere migliore, che mi trascinasse fuori casa quando sono pigra, che mangiasse la pasta alla farina di canapa insieme a me perché sa che mi fa sentire meno in colpa considerato che apporta il 20% delle calorie in meno e che è ricchissima di cose fighe che fanno bene.

Che amasse le mie passioni perché sono mie, e mi rendono unica; perché quando mi vede immersa fare le cose che amo, mi vede risplendere e non può fare a meno di sorridere.

Che mi mandi la buonanotte quando non siamo insieme.
Che ogni volta che parto da sola, mi chiami per dirmi che mi ama.
Che mi scelga, con forza, che mi scelga ogni giorno, perché lo sa che vuole me.
Perché non può più farne a meno, perché non può fare diversamente.
Perché io ho visto lui, nella sua essenza e lui ha visto me, dentro dentro, sotto sotto.
Perché ci facciamo bene a vicenda.

La Casa del Porto

C’era una volta un posto a cui ero molto legata, anzi lo sono tutt’ora, solo che il posto non c’e più, quindi devo usare il tempo verbale passato.
Non è come quando hai un ricordo di un posto bello, e anche se non ci sei mai più tornato nella vita sai che il posto è ancora lì. Forse ti aspetta, anche se non tornerai…
E allora ogni tanto ci vai con la mente e te lo immagini, anche se magari è cambiato col tempo, il posto esiste e in qualche modo è vivo e tu lo visiti coi pensieri, con le sensazioni, con i colori che hai dentro.
Quando hai un ricordo di un luogo e il posto non c’è più è come un lutto topografico, come se lo avessero ucciso. Quel posto è morto. Lo hanno fatto sparire. Le ruspe lo hanno raso al suolo.
Quel posto in sicilia era la case delle vacanze della mia famiglia. Per anni e anni vi si sono alternate le generazioni a partire dal bisnonno, che lo aveva avuto in concessione dal demanio negli anni ’50.
Quel posto, come in tutte le grandi storie, è diventato una leggenda, fatto di racconti divertenti e drammatici, di cose che sono successe e che lo hanno trasformato  -e con lui le persone che ci andavano.
Io lì ho imparato ad andare in bicicletta, su quella strada sterrata e polverosa. Lì i miei cugini grandi andavano a pescare; tornavano dal mare con le murene e i polipi nel secchio. Lì siamo diventati grandi, abbiamo giocato a nascondino, a tirarci le bombe d’acqua, abbiamo scritto diari al pomeriggio, mentre i grandi dormivano, abbiamo costruito capanne, abbiamo raccontato segreti, abbiamo dato baci nascosti dietro le case, abbiamo ballato, cantato, abbiamo mangiato tutti insieme.
(…)
Anni dopo sempre lì, ho guidato per la prima volta la macchina. Quella a noleggio. Facevo il giro del cortile. E mi sentivo grande.
In quel posto sono davvero cresciuta, non è un modo di dire. Ci ho passato tutte le estati della mia vita, una dietro l’altra per quasi 20 anni. Le mie cugine erano le mie migliori amiche. Eravamo uniti, eravamo un clan, eravamo una tribù. 12 ore al giorno in costume, maglietta, pantaloncini e ciabatte.
A stendere asciugamani salati, incessantemente, in un moto ciclico che si ripeteva di continuo, due volte al giorno, dopo il mare.
La sera si giocava a carte, si giocava forte, coi soldi.
Si arrostivano peperoni, si infornavano pizze, si seccavano pomodori.
I nonni erano nonni e i bambini, bambini.
La lista delle cose da dire sarebbe troppo lunga, infinita. Se interpellassi ognuna delle100 persone che di quel posto ha un ricordo, che lo ha vissuto, ognuna direbbe una cosa diversa, racconterebbe una sfumatura, descriverebbe un momento. Forse con un sorriso, forse con una lacrima.
Da quel posto, la notte, spesso guardavo il cielo e vedevo chiaramente le stelle, perché stavamo in un angolo di mondo ancora poco illuminato. La prima volta che ho visto la via lattea nella sua chiarezza.
Quel posto è stato tutto e adesso è niente.
Non aveva un vero indirizzo, eppure il postino sapeva che eravamo lì e ci portava le lettere.
Strada Provinciale 84, Contrada Fossa.
Ci sono ancora gli scogli, e c’è il mare, ma il profilo della terra è cambiato, la sagoma che si vede dalla strada non è più la stessa.
Un posto profanato, un posto brutalizzato.
Mi fa ancora male pensare con tanto amore a quel posto e non poterci più tornare.

LASCIARSI

Va tutto bene, va tutto bene…
Non è morto nessuno e nessuno morirà, nemmeno tu, nemmeno io.
Stiamo tutti bene di salute e quindi non è grave.
E’ solo una fine. Come altre. Solo un punto. Che cos’è un punto, in fondo.
Non esiste un “lasciarsi bene”, perché lasciarsi è una rottura, e per rompere le persone forzano, calcano la mano, diventano altro. Nel lasciarsi c’è la trasfigurazione. Come fa qualcuno che era così “chiaro e trasparente” (cit. Battisti) per te a diventare il tuo peggior nemico? Eppure.
Lasciarsi fa sempre schifo e basta.
Nel rispetto di questa e di tutte le storie e di quello che uno hai provato, spero che, nella narrativa del lasciarsi, sarai pulito. Sarai onesto. Almeno con te stesso.

Nessun messaggio del buongiorno, né il bacio della buonanotte.
Durante il giorno sto anche bene, lavoro, faccio le mie cose. Ci sono però dei momenti netti in cui tu occupavi degli spazi con la tua presenza fisica o immateriale, sono come i vuoti d’aria in aria, il cielo è sereno ma d’improvviso precipiti.
E poi la sera mi viene l’ansia, non riesco a dormire e mi imbottisco di Fisioreve. (Dopo un mese, però, le goccette sono finite e ho recuperato un sonno decente.)

Nessuno-cambia-mai-nessuno, non si tratta di identità, si tratta di azioni, si tratta di voler fare dei compromessi, si tratta di avere una visione comune.
Questa volta però, anche se non ero preparata, almeno sono equipaggiata.
Non mi darò tutte le colpe in un tentativo di autodistruzione, come avrei fatto invece una volta.
Questa volta non è colpa mia. (Neanche tua). E’ andata così e basta. Non voglio vivisezionare questo corpo ancora tiepido, non adesso, ci penserò domani a dare un ordine ai perché. Un senso ai come mai (cit. 883). Questa volta lo accetto. Perché prima lo accetto, prima posso andare avanti.
E io non ho tempo da perdere, non ho tempo per essere triste.
Devo vivere, io. Ho da fare.
Quel vuoto che era pesante, adesso è a poco a poco più pieno.
Di cose mie, del mio tempo. Di gesti per me.

Andate e ritorni.
Quando mi sembra di aver fatto dei piccoli passi poi ci sono giorni in cui mi sorprendo a piangere per tutto.
Piango forte, piango tanto. Lascio scorrere. Mi lascio attraversare.
Nonostante tutto penso che ce la farò.
Non sono più triste. Sono delusa, soprattutto, e arrabbiata.
E poi, sì, ho paura, di non capire domani e di sbagliare con qualcun altro. Questo non so come aggiustarlo. Perché diventano sempre più complicate le relazioni, il mettersi in gioco, con il bagaglio che si fa più pesante.
Lo dò al tempo, questo compito, che ci pensi lui.

Va bene lasciarsi, ma quando mandate a puttane i mondi degli altri, – vorrei chiedervi – fatelo con garbo, fatelo con grazia, fatelo piano.
Ti ho davvero amato, come meglio mai ho saputo fare nella mia vita.
Tutte le tue differenze, i tuoi grassetti che cercavo di rendere corsivi, i tuoi spigoli su cui continuavo a sbattere gli stinchi.
Mi dispiace solo che non sia stato abbastanza.

TU mi hai lasciato, ma IO invece quando ti ho lasciato?! E’ la vera domanda…

Riflessione sulla felicità

Mi avevano detto che dovevo essere felice. Che quello era il mio compito. La mia missione.
Ma non mi avevano detto che la felicità non era il punto di arrivo, ma il percorso.
Per me la felicità non è l’attimo di gioia, ma il viaggio.
La stessa differenza che intercorre tra dolore (acuto) e sofferenza (cronica).
La felicità non è il brivido estemporaneo, la felicità è piuttosto essere contenta.
La soddisfazione delle piccole cose che accadono ogni giorno, la riflessione sulle relazioni che piano piano crescono e maturano.
La felicità è una sensazione diffusa di benessere.

Diego Contento

Colloqui professionali e tradimenti, un nesso non evidente…

Per i colloqui ci vuole esercizio, più ne fate, più sarete bravi. Imparerete a raccontare la vostra storia, riconoscerete un pattern di domande che vi vengono fatte sempre e se vi impegnate riuscirete a capire i vostri intervistatori quasi più di quanto loro riescano a capire voi. Preparatevi all’imprevisto, alle domande strane, alle sorprese. Sempre più nelle aziende moderne vanno di moda le video interviste come strumento di pre-selezione. Non è facile sentirsi a proprio agio parlando da soli a un computer che vi registra. Allenatevi riprendendovi mentre vi presentate o guardatevi allo specchio.
Quando vi invitano di persona, la vostra stretta di mano forte e decisa e il vostro primo sorriso sono la chiave numero uno. Qualunque cosa succeda voi imponetevi di essere prima di tutto puntuali – è il mio consiglio numero due. Vi faranno aspettare per darsi importanza o staranno zitti a lungo e in modo strano per vedere come reagite allo stress.
Non mettetevi a ridere se vi chiedono: “Quante palline da golf ci sono in Italia?” Serve per vedervi in azione in un ragionamento logico e capire che approccio avete al problem solving. Provate sempre a rispondere. Si sbaglia solo a stare zitti. (Altre che ho sentito sono: “Quanti palloni da basket ci stanno in questa stanza? Perché i tombini sono rotondi?”).
Potrebbe capitare che, dopo avervi chiesto delle vostre competenze, vi venga chiesto se avete animali domestici. Qui confesso che il nesso non l’ho del tutto capito, ma accogliete tutto con un sorriso e mostratevi aperti (anche con il linguaggio del corpo e una buona postura) e disponibili. Al di là di quello che sapete fare professionalmente, un bravo recruiter cerca di capire la vostra personalità, misura le vostre soft skills e il vostro potenziale nascosto.
Ultimo punto, ma secondo me piuttosto rilevante: quello che oggi siede davanti a voi al colloquio come vostro potenziale datore di lavoro, domani potrebbe diventare il vostro ex-datore-di-lavoro, quindi mostrare una certa etica professionale e onestà verso l’azienda che state per lasciare non fa certo male.
Non dite cose tipo il mio capo non capisce niente e non vuole promuovermi, ma formulate piuttosto le cose in non si è concretizzata ancora la possibilità… Non dimostratevi senza scrupoli insomma verso chi vi ha dato da mangiare negli anni precedenti anche se non vedete l’ora di lasciarli, non parlate male del posto da cui venite.
Qui calza a pennello un bel parallelismo con le relazioni sentimentali. Diciamo che voi siete single e iniziate una storia con qualcuno, magari poi scoprite che lui/lei era già in coppia, il soggetto dunque inizia a tradire il suo partner per stare con voi e poi magari lo lascia. Ora, voi vi ci mettete insieme, dubiterete mai della sua ferrea moralità sapendo che ha già piazzato le corna a quella con cui stava prima??? E con voi cosa farà???
Ecco, la stessa cosa penserà il vostro nuovo datore di lavoro e si farà un’idea di voi e della vostra loyalty.
Buona fortuna.

VANVEREGGIARE

Ci sono tre amiche in un bar. Che non si vedono da un po’.

Ci sono tre donne. Che iniziano a raccontare le loro vite e i loro stati d’animo. Che fanno le sintesi degli ultimi 3 mesi. Che mettono in prospettiva. Che riassumono, che sviscerano, che descrivono. Che riportano fatti e cose dette. E poi le commentano. Davanti a uno spritz. Due. Tre.

E parlano del nulla e del tutto.

E parlano dei massimi sistemi. Delle relazioni, della vita. Delle donne e degli uomini, dei tempi moderni. Parlano e non è poi importante che si concluda nulla. Non c’è una fine. E’ solo un discorso che rimane sospeso sopra le loro teste, nell’aria del bar, nella nuvola delle sigarette. Che verrà ripreso altre mille volte e portato avanti, che di volta in volta si rianimerà e si evolverà ancora con le donne dopo di loro, nello stesso bar e in tutti i luoghi in cui le donne si parlano.

Però dopo quelle due ore si sentono meglio, e non sanno dire perché, non sanno dire come mai. Che tanto tornano a casa sempre con lo stesso vuoto dentro, con lo stesso peso sul cuore, con la testa che gira, con la gonna spiegazzata. Eppure stanno meglio. Nell’unire le loro ansie, le loro solitudini, le loro crisi, nel confessare le loro pazzie. Si alleggeriscono, si sento uguali. Si sentono diverse e questo le avvicina.

NOTA curiosa sull’origine del termine parlare a vanvera:

http://www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/consulenza-linguistica/domande-risposte/parlare-vanvera

TATUAMI ANCORA

Loro dicono: “Io Fedez non lo posso vedere, sembra senza collo, e poi con tutti quei disegni a caso… ti immagini quando sei vecchio con tutta la pelle cadente?”.

Queste sono le argomentazioni della lobby bacchettona delle mie colleghe anti-tatuaggio.

Pochi giorni dopo io arrivo in ufficio malcelando il sesto che ho appena fatto. Discreto, ma visibile. Me lo sono chiesto diverse volte se i tatuaggi mi avrebbero compromesso. Ma il mio lavoro lo so fare e quindi ritengo che non debba essere un problema dell’azienda. Al pari del come ti vesti, io credo, uno si deve rendere conto del contesto in cui si trova, modularsi, ma non deve essere obbligato a snaturarsi se questo non c’entra con il suo lavoro. Ora il punto è in quale punto preciso l’immagine smette di centrare con il lavoro che si fa? Prendete la new wave dei cuochi hipster (io Rubio lo adoro!).

Sembra che essere tatuati sia un must, ora vi chiedo: a qualcuno frega qualcosa se il piatto che mangiate è buono ed è stato fatto da braccia tatuate? Per me anche l’assicuratore o l’agente immobiliare dovrebbero essere liberi di lavorare anche se tatuati.

Alle argomentazioni sull’età io rispondo: “Ma guarda che se sei vecchio la pelle cadente ce l’hai lo stesso con o senza scritte. Se sei vecchio, sei vecchio lo stesso e basta; oppure all’inverso non è che sembri meno vecchio senza tatuaggi.”

Più che altro possiamo parlare del senso estetico se volete. Quello sì. Se ti sei fatto un disegno brutto o fatto male allora mi dispiace per te che ti sei imbruttito, ma che tu abbia un tatuaggio o no non fa differenza sull’invecchiamento. Se è brutto, è brutto da giovane e da vecchio.

Siete comunque convinti che i tatuaggi sono roba da giovani?! Ma questo lo pensate solo perché quelli che hanno i tatuaggi adesso non sono ancora vecchi abbastanza, ma ci stanno arrivando.

Prendi un J-AX che oggi ha 45anni. (E dico lui perchè per me è uno dei primi artisti che associato al concetto di “molto tatuato”) A me pare che porti benissimo sia l’età che i suoi tatuaggi. Quando questi personaggi saranno vecchi e molti vecchi avranno i tatuaggi intorno a voi allora nella vostra testa sarà finalmente una normalità vedere dei vecchi tatuati, è questione di tempo e di generazioni. Tutto qua.

Come le donne che guidano o che votano, che lavorano… sembrava una cosa strana no???

Ti immagini se invece sbiadissero con l’età? Un domani non sarebbe più lui ma un vecchietto qualsiasi. Invece lui è e rimane J-AX anche da vecchio. E questo non è un esempio che vale solo per gli estremi o le rockstar, vale anche per noi povere persone normali. E’ un assunto filosofico: io sono così e sono così perché nel mio cammino ho fatto un percorso che mi ha plasmato, sono caduta e mi sono rialzata, ho sofferto e ho fatto esperienze. Sono cicatrici. Dentro o fuori che siano non importa. Per esempio io ho uno squarcio sul ginocchio che aveva bisogno di punti che nessuno mi ha fatto mettere. E quando sarò vecchia lo squarcio sarà sempre lì. Mi starà male? L’unica differenza che ci vedo sta nella volontarietà dell’atto, ve lo concedo.

A questo proposito vi ricordo che il tatuaggio ha una origine antichissima e profonda. Che dietro la vanità dei nostri tempi e la superficialità che magari vi evoca un corpo alla Giancluca Vacchi, ci sono storie e credenze. Ok, è diventato popolare, è diventato comune, ma è un fatto che quando le cose diventano di/per tutti perdono il loro fascino mistico. Però il senso rimane.

Il tatuaggio è catartico, perché quando soffri in certi momenti della vita senti il bisogno di farti del male, di lasciare un segno, perché poi sai che guarirai e insieme a quella cicatrice nuova ti porterai dietro un pezzo della tua storia.

Loro dicono anche che negli inchiostri ci sono dei metalli e che le micro particelle di queste sostanze poi viaggiano nel corpo e ci fanno ammalare. Non ho mai visto uno studio che provi esistono dei tumori derivati direttamente da questo. Così come ancora non sappiamo bene se le sigarette elettroniche fanno meno male. Eppure, nel dubbio, i vizi ce li avete tutti lo stesso. Vi ricordo che fumate e bevete e mangiate cose che vi intoppano le arterie ogni giorno. Ogni giorno assumete atteggiamenti “a rischio” pensando che tanto di qualcosa si dovrà pure morire. Qualche vizio bisogna averlo. Esattamente lo stesso. Ho fatto una scelta consapevole e mi sono messa dell’inchiostro nella pelle, a lungo andare e per quanto vivrò mi capiterà di a volte di esagerare col bere o di non fare mai abbastanza esercizio. Che cosa mi ucciderà in definitiva non mi interessa; sarà una di queste cose oppure saranno queste cose tutte insieme o una che non c’entra nulla come un aereo che crolla. Tatuaggi o no vi ricordo che si muore lo stesso.

Né più e né meno, sono i piccoli gesti che facciamo che comportano sempre delle scelte e che possono metterci a rischio di qualcosa. Tatuarsi non è proprio come fare uno sport estremo tipo buttarsi con la tuta alare; li sì che mi prendo un bel rischio. Eppure, santissimo il cielo e tutto il firmamento, lasciateci in pace, e che ognuno viva come cavolo gli và.

Se sarò mai una nonna, sarò una nonna scarabocchiata.